Salario e mercato del lavoro. Il rapporto inps consente una riflessione a tutto campo.
Le cinquecentodue pagine del XXI Rapporto Inps intitolato “ Conoscere il Paese per costruire il futuro” mettono, come si dice in gergo, i piedi nel piatto.
Cominciamo dalla vexata qauestio del reddito di cittadinanza: non è vero che chi percepisce il reddito di cittadinanza, preferisca oziare piuttosto che lavorare. Secondo i dati Inps, l’istantanea del 2019, cioè l’anno prè pandemia, ci consegna una platea di fruitori che, solo per il 30% è abile al lavoro a tutti gli effetti (giacché ha avuto un’esperienza lavorativa nel triennio precedente) Il restante settanta viene computato tra disabili, pensionati, minori, e persone che non hanno mai potuto lavorare.
Molto si è detto e scritto sul costo di questa misura. Nel 2021 è costato otto miliardi. Invece su quanto sono costate alla collettività le agevolazioni fiscali alle imprese nello stesso anno, circa 20 miliardi nessuno profferisce verbo!
Questo si collega direttamente ai lamenti degli operatori del settore del turismo, che affollano i talk-show, denunciando l’impossibilità di trovare forza lavoro per la stagione estiva appena iniziata.
Qui bisogna osservare un mix di fattori che hanno determinato questa situazione. In primo luogo, durante la pandemia, il settore dei servizi e del turismo ha avuto uno stop lunghissimo, e durante la chiusura i lavoratori dipendenti, per campare, hanno dovuto trovare impieghi alternativi. Come conseguenza il settore ha perso oltre il 9% dei dipendenti, pari a 161mila unità.
C’è poi tutta la partita che riguarda le retribuzioni. Davvero i giovani non vanno a lavorare a causa delle condizioni contrattuali miserabili? Confcommercio parla di 300000 unità da assumere solo nel comparto del turismo. Ovviamente parliamo per lo più di forza lavoro priva di profili professionali significativi. Il CCNL Ristorazione Collettiva prevede per il 2022, al livello 7, profilo per il quale non è richiesta nessuna specifica professionalità, uno stipendio di 1.293 euro lordi mensili. Il contratto alberghiero è in sostanza equivalente (due euro in meno)
Più in generale, l’attuale situazione contrattuale, vede i minimi orari collocati a livelli di poco superiori ai 7 euro, con l’eccezione degli operai agricoli (5,14 euro orari) e delle collaboratrici domestiche (4,62 euro orari). Già da questo si capisce come sia un problema, determinare un valore minimo orario uguale indistintamente per tutti i lavoratori del nostro paese, indipendentemente dal fatto che siano assunti a Trento o a Pantelleria.
Del resto, parlare di minimi orari salariali differenti per il territorio, significa riaprire uno stucchevole dibattito sul ritorno o meno alle “gabbie salariali” abolite una cinquantina di anni fa.
Nell’ipotesi in cui s’intendesse applicare il modello in atto nei 21 paesi UE, con salario minimo legale, o si adotta il valore minimo assoluto in essere (4,62 euro orari) che oggettivamente avrebbe un’utilità residuale, o si adotta un valore convenzionale più alto (potrebbe essere per esempio quello di sette euro)
Questa scelta creerebbe però una contraddizione enorme in due settori, come l’agricoltura e il lavoro domestico, quest’ultimo in continua espansione per evidenti motivi, per cui il costo del lavoro legale aumenterebbe del 50% circa. Impensabile!
Ma questo è il cuore del problema. La questione è complicata dal fatto che, la nostra struttura contrattuale, si regge sul tradizionale contratto collettivo nazionale di settore, di origine corporativa. Ora, com’è noto, la mancata attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione, impediscono, di fatto “l’esperibilità erga omnes” dei CCNL, aprendo la via a tutta una serie di contratti pirata, che, essendo efficaci per legge, rendono difficile, se non impossibile, restare nell’alveo dell’obiettivo raccomandato dall’UE: prendere a riferimento tutti i minimi orari contrattuali.
E’ evidente che si apre un problema enorme. Per procedere a un’armonizzazione del salario, e avviarsi così sul percorso indicato dall’Unione Europea, è necessario
“normalizzare” la libertà di contrattazione, affermata senza equivoci nell’articolo 39 della Costituzione.
Resta il problema di una legittimazione di tutti contratti in essere. Occorre quindi accertare la rappresentatività di ciascuna organizzazione stipulante, sia di parte sindacale sia imprenditoriale. La libertà di contrattazione e di associazione dei lavoratori non è in discussione, ma deve prevedere, come fonte di certificazione del consenso, anche il diritto di voto di tutti gli interessati, attraverso norme inoppugnabili, per scongiurare il proliferare di contratti infami, sottoscritti da sindacati di comodo, con associazioni imprenditoriali altrettanto evanescenti.
E questo deve valere per tutti i contratti, la polverizzazione dei comparti, la diversificazione delle attività economiche, frutto di uno sviluppo tecnologico rapidissimo, ha reso logoro il vecchio impianto di contrattazione tra le parti, mettendoci davanti ai suoi limiti, limiti che vanno superati con uno sforzo di creatività e pragmatismo, nell’interesse del mondo del lavoro.
Resta la decisione politica di determinare per via legislativa, in conformità a un confronto con le parti sociali, una retribuzione minima oraria. Ma questa è un’altra storia.