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AUTONOMIA DIFFERENZIATA. LUCI ED OMBRE

Il 17 novembre 2022, il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato alle regioni italiane la bozza di disegno di legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
Cerchiamo di capire in cosa consiste l’autonomia differenziata.
Sono passati cinque anni dai referendum promossi dalle Regioni Lombardia e Veneto, alle quali si è poi aggiunta l’Emilia-Romagna, per l’attuazione dell’art. 116 terzo comma della Costituzione, e per l’attuazione dell’autonomia differenziata
Originariamente, la Costituzione prevedeva già livelli diversi di autonomia per le regioni italiane. Sempre l’art. 116, infatti, distingueva tra quindici regioni a statuto ordinario e cinque regioni a statuto speciale (nonché due province autonome).
La riforma costituzionale del 2001, peraltro confermata da referendum popolare, aggiungeva il terzo comma all’art. 116, che da allora prevede che, successive forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119.
La legge e stata approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base d’intesa fra lo Stato e le regioni interessate.
La bozza presentata è costituita da nove articoli e un allegato (le materie trasferibili alle regioni). Diversi i passaggi controversi, che hanno già sollevato seri dubbi da parte di molti presidenti di regione del Sud.
La questione dell’autonomia differenziata, ha sonnecchiato in questi anni. Dopo il Governo Gentiloni, che sottoscrisse tre accordi preliminari, sia i governi Conte, che quello Draghi, hanno marcato passi avanti.
Sono riemersi con veemenza, dopo la vittoria delle destre, poiché il tema dell’autonomia differenziata, è contenuto nell’accordo quadro di programma sottoscritto dai leader della coalizione vincente.
L’enfasi con la quale la Lega evidenzia l’importanza dell’obiettivo, si concreta in affermazioni del tipo: ” (…) L’autonomia è una dimensione spirituale, un’autentica vocazione”. Una questione politica, dunque.
Al di la della poesia, il nodo centrale rimane quello delle risorse e del loro impiego. L’idea delle regioni promotrici è quella di trattenere parte delle tasse pagate nel territorio regionale, (IVA, IRPEF) fino alla misura dei 9/10 del gettito, per finanziare le maggiori competenze.
La Corte Costituzionale si è pronunciata sul tema, bocciando i quesiti referendari.
Per quanto riguarda le norme di accesso, non si fa menzione, invece, di criteri tecnici minimi per la richiesta. Per esempio, non si richiede che la regione richiedente abbia i conti in ordine, o non sia stata commissariata in precedenza per la gestione delle materie di cui fa richiesta.

Il ruolo dei soggetti coinvolti nel procedimento, è poi esplicitato in un articolo ad hoc. Concretamente, questo significa che il Parlamento potrà solo approvare o no lo schema d’intesa, senza poterne cambiare i contenuti. In pratica, per una materia così delicata, si adotta un meccanismo analogo a quello utilizzato per le intese con le confessioni religiose!
Una somiglianza dovuta dal fatto che, per entrambe le tipologie di accordi, la Costituzione utilizza la medesima dicitura (Intesa). Non può sfuggire che la rilevanza della questione, dal punto di vista sostanziale, e del tutto diversa. E poi, è davvero curioso, se non inquietante, che l’organo propriamente legislativo (il Parlamento) abbia solo un potere di “mera approvazione” sulla cessione ad altri soggetti di competenze che invece, secondo la Costituzione, sono sue.

Un altro elemento cruciale della legge di attuazione è il ruolo dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Secondo un articolo specifico della Costituzione, devono essere determinati dal Parlamento e garantiti sull’intero territorio nazionale. I Lep riguardano materie “concernenti i diritti civili e sociali”, un argomento questo che merita un serio dibattito.
. La bozza di DDL prevede, all’art. 3, che prima di procedere all’intesa, debbano essere definiti tali Lep. Una previsione doverosa, naturalmente, ma, poco dopo, la stessa bozza prevede che Governo e regioni possano procedere all’intesa, nelle more del dibattito parlamentare. Fino alla definizione dei Lep, quindi, l’accordo prevedrebbe un finanziamento basato sullo storico, per quella competenza trasferita (mi costava 100, ti do 100) in attesa che si definiscano i Livelli Equivalenti.
Il nodo delle risorse è particolarmente aggrovigliato, e a questo proposito anche l’Ufficio parlamentare di bilancio ha espresso forti dubbi.
Proseguendo, l’art. 5 della bozza afferma che “Le funzioni amministrative trasferite alla regione in base all’intesa approvata con legge, possono a loro volta essere attribuite a comuni, province e città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse”. Si tratta di un articolo solo apparentemente marginale. L’esperienza del 2018 tra Governo e le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ha proprio dimostrato come le intese si siano sviluppate non tanto attorno alle competenze legislative, di cui gli organi statali preposti (il Parlamento, ma anche i singoli ministeri) sono particolarmente gelosi, ma soprattutto attorno alle competenze amministrative.
L’art. 6 della bozza interviene sulla durata delle intese. Non è indicata, ma può essere prevista dal singolo accordo. Forse sarebbe meglio stabilire una durata minima e massima delle intese (con possibilità di rinnovo) e lasciare ai singoli accordi la possibilità di verifiche periodiche.
Così come sarebbe utile assegnare comunque una clausola di tutela dell’interesse nazionale al governo che, in circostanze straordinarie, potrà recedere anche unilateralmente dall’intesa.
Il timore, equamente diviso tra tecnici e politici, è che le regioni non siano pronte per affrontare questo passaggio.
L’esempio più classico di autonomia è quello della sanità, che rappresenta una grossa voce nel bilancio delle regioni. A oggi, l’autonomia ha prodotto dissesti, commissariamenti, e un bailamme burocratico assurdo; e nel futuro, qual ora ci fossero problemi finanziari, si dovrebbero comunque sussidiare i territori più poveri, col rischio di vanificare la riforma.

Completa il programma di finanziamento il passaggio dal criterio della spesa storica a quello del fabbisogno standard, anche se, in attesa della definizione del secondo, si continuerà ad applicare il primo.
Forse bisognerebbe partire dall’analisi dei modelli in atto, sviscerandone i difetti e le debolezze, le virtù e i vizi, prima di attribuire nuove forme di autonomia.

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